martedì 13 novembre 2007

Il referendum deliberativo comunale in Italia

AMMINISTRARE / a. XXIX, n. 2, agosto 1999
Il referendum deliberativo comunale in Italia
di Ettore Rotelli
1. Tramonta il XX secolo senza che il referendum deliberativo
comunale sia posto in Italia all’ordine del giorno della riforma dell’ordinamento
locale. Eppure è in causa il ruolo rispettivo della democrazia
diretta e rappresentativa nel governo delle città.
Fin dai primi anni ’70 furono opposte obiezioni pregiudiziali all’esercizio
della prima. Non si riuscì, allora, a stipulare (o, meglio,
rinnovare) la ‘convenzione’ secondo cui nel Comune, come nello Stato,
insomma a ogni livello della Repubblica, è democrazia diretta la
coincidenza soggettiva fra cittadini governanti e cittadini governati o,
se si preferisce, amministratori e amministrati e si ha, dunque, democrazia
diretta quando sono chiamati a prendere la decisione tutti coloro
sui quali la decisione incide e democrazia rappresentativa quando,
anziché prendersi la decisione, si decide, mediante elezione, chi
sono coloro che la devono prendere. Semmai, offriva un ulteriore
contributo teorico certo pensiero marxista suggerendo che democrazia
diretta è attribuzione allo stesso soggetto della titolarità e dell’esercizio
del potere, essendo invece democrazia rappresentativa la
separazione, invero inammissibile, fra l’una e l’altra1.
Dominava in quegli anni il concetto multiforme di partecipazione,
quasi mai intesa in senso forte, appunto come democrazia diretta2.
Propriamente si definiva tale quella di un soggetto, individuale o
collettivo, istituzionale o meno, in un procedimento destinato a concludersi
con l’atto decisivo di un altro soggetto o più ampio insieme
di soggetti. Trattavasi, in pratica, di un metodo decisionale caratterizzato
da una pluralità di interventi in fase procedimentale3.
Piuttosto era l’inserimento dei sindacati in questi processi a essere
qualificato, a torto, democrazia diretta. Riferita alle Regioni, appena
istituite, ed alla redazione dei loro statuti, la vulgata giuridica bolognese
spiegava: ci sono «contrapposti modi di intendere la ricerca
di forme di democrazia diretta: se come partecipazione dei cittadini
uti singoli (...), oppure come di cittadini uti soci, cioè in quanto organizzati
nelle diverse formazioni sociali». Con l’opzione ideologica net298
ETTORE ROTELLI
ta: «Precise ragioni sembrano ispirare il ripudio della prima alternativa:
[che] ha in sé ben poco di democratico»4.
Si viveva allora l’euforia della fase statutaria regionale. I dubbi,
affacciati fin dagli ultimi anni ’60, sul modello costituzionale del Titolo
V, sulla potestà legislativa, sulla forma di governo, sulla razionalità
territoriale di gran parte delle Regioni stesse, soprattutto sulla mancata
contestuale riforma di Comuni e Province5, erano stati respinti
come tecnocratici in nome della stessa democrazia, se non addirittura
del socialismo6. Democrazia era soltanto la rappresentativa, che, per
giunta, veniva chiamata diretta. L’Emilia Romagna, che, come la Toscana
e l’Umbria, aveva escluso il referendum consultivo nella confezione
del proprio statuto, era l’unica Regione a iniziare la seconda legislatura
(1975) senza una legge sui referendum sulle leggi e gli atti
amministrativi regionali. Nondimeno, notava il responsabile dell’ufficio
legislativo dell’ente, «forme nuove di democrazia si sono venute
ugualmente affermando nel corso della lunga marcia del movimento
operaio attraverso le istituzioni, le cui tappe fra le più importanti e significative
possono rinvenirsi proprio in una Regione come questa».
Era in atto, proseguiva, «l’esaltazione di tutta la rete delle assemblee
elettive»7. Con esse, ribadiva il presidente della Regione, era stato
realizzato «il superamento di una democrazia meramente delegata di
stampo liberale» incentrata su Parlamento e su partiti8. E su opposta
sponda politica si faceva eco: fondare il governo locale su «assemblee
elettive dirette» significava mettere in gioco «il rapporto tra rappresentanza
politica generale e forme di democrazia diretta»9.
Ai Consigli regionali si erano aggiunti, nel frattempo, i quartieri
(consigli circoscrizionali, legge 278/1976) e i comprensori, nonché i
consigli scolastici. Ma parlare di democrazia diretta a proposito della
moltiplicazione di assemblee elettive era, palesemente, contraddizione
in termini ché qualsiasi assemblea elettiva è sempre, come tale, una
forma rappresentativa e mai diventa democrazia diretta il semplice
sviluppo quantitativo della democrazia rappresentativa medesima.
Quest’ultima, del resto, non si esaurisce con quello che è uno solo
dei suoi livelli istituzionali, il Parlamento nazionale. Fra l’altro, non è
democrazia rappresentativa esclusivamente il regime parlamentare. Lo
è, altresì, il presidenziale: non tanto perché sia dotato anch’esso di assemblea
decisionale elettiva, quanto perché è elettivo pure il presidente
(si confonderà ulteriormente, al riguardo, negli anni ’90, definendo
democrazia diretta la cosiddetta elezione diretta, più o meno
separata, dell’organo monocratico del Comune, della Provincia, della
Regione, dello Stato).
Emergeva poi, contemporaneamente, un’altra insidia concettuale,
non meno foriera di conseguenze istituzionali negative per la introduzione
nell’ordinamento locale di una autentica democrazia diretta. SeREFERENDUM
DELIBERATIVO COMUNALE IN ITALIA 299
condo il sindaco di Bologna, pure nei quartieri «i legami fra la democrazia
rappresentativa e la democrazia diretta dovevano esistere ed essere
potenziati». Ma la seconda si identificava con «i comitati, le associazioni
locali, di donne, inquilini, pensionati, studenti, le iniziative
più o meno continuative dei diversi ceti e gruppi». Perciò, concludeva,
«quella che viene chiamata democrazia diretta (...) non può essere
inglobata nei quartieri stessi, salvo una sua estinzione»: «una confusione
o inversione dei ruoli sarebbe esiziale»10.
Sulla medesima lunghezza d’onda ancora nei primi anni ’80 un filone
culturale, che poi fonderà una precisa pratica sociale, considererà
equivalenti democrazia diretta e democrazia di base, «un ambito
dove esercitare il potere» prima dominato «dagli automatismi del diritto
privato e dell’amministrazione»: la democrazia diretta «dovrà essere
dunque un sistema di organi di potere di base gestiti con precisi
status e ruoli da personale politico preparato»11.
Persino il magistero di Norberto Bobbio, di fronte alla genesi
della legge 278/76 (consigli circoscrizionali), si concedeva qualche indulgenza
terminologica, sia pure per descrivere un fenomeno in atto
di trasformazione di istanze di democrazia di base (o partecipazione,
come allora preferibilmente si diceva) in ampliamento di democrazia
rappresentativa: «se è vero che (...) nel momento della nascita più o
meno spontanea dei comitati di quartiere, si può parlare appropriatamente
di democrazia diretta (diretta sì, ma quantitativamente molto
limitata), è altrettanto vero (...) che non appena si è provveduto alla
legittimazione o alla regolarizzazione della partecipazione di base, la
forma che essa ha assunta è [stata] quella della democrazia rappresentativa
». Forse, più che una «tendenza naturale» a passare dalla
«fase spontanea alla fase della necessaria organizzazione», era corretto
constatare una specifica risposta partitica o partitocratica. In ogni
caso, «una nuova avanzata della democrazia rappresentativa»12.
Quanto al referendum, «che è poi – aggiungeva – l’unico istituto di
democrazia diretta di concreta applicabilità e di effettiva applicazione
nella maggior parte degli Stati di democrazia avanzata, è un espediente
straordinario per circostanze straordinarie. Nessuno può immaginare
uno Stato che possa essere governato attraverso il continuo appello
al popolo» giacché «nulla uccide più la democrazia che l’eccesso di
democrazia».
Invano era stato avvertito che tecnicamente una democrazia diretta
locale autentica ormai si poteva introdurla13. La Svizzera non era
tanto lontana. Lo stesso ordinamento italiano, agli inizi del secolo,
aveva conosciuto il referendum municipale sui servizi pubblici. E nel
Lombardo-Veneto, fino al 1859-1866, prima ancora nella Lombardia
austriaca, era stabilita e praticata nei Comuni minori una democrazia
diretta, esaltata da Carlo Cattaneo, la quale non era proprio democra300
ETTORE ROTELLI
zia, in quanto riservata ai proprietari terrieri piccoli e grandi (estimati),
ma sicuramente era diretta14.
2. L’attenzione prevalente per l’istituto dell’assemblea deliberante,
piuttosto che per quello del referendum, rifletteva ideologie e
prassi spontanee in auge nei movimenti collettivi degli ultimi anni ’60
e dei primi anni ’70. Si era spiegato, allora, in chiave marxista che il
concetto di democrazia diretta constava di una negazione, che il potere
potesse essere delegato, e di una affermazione, che la massa potesse
esercitarlo direttamente in quanto organizzata in assemblea15. «Effettivamente
l’idea della democrazia diretta è l’idea centrale, starei
per dire l’unica idea centrale, della teoria socialista dello Stato», certificava
Norberto Bobbio16.
Soltanto quando si cominciò a propugnare l’introduzione della
democrazia diretta nella riforma degli ordinamenti locali17, data per
imminente l’anno del d.p.r. 616/1977, cioè della seconda regionalizzazione
dopo quella del 1972, si sarebbe riusciti a spostare lo sguardo
sul referendum. Quello deliberativo, ovviamente. Non sono infatti
istituti di effettiva democrazia diretta, sebbene spesso inclusi da taluni
manuali di diritto pubblico, l’iniziativa popolare e la petizione fini
a se stesse, né, tanto meno, il referendum meramente consultivo.
Il referendum locale non era più suscettibile, se mai lo era stato,
delle obiezioni tecniche di concreta applicabilità sollevate contro la
democrazia diretta. Per Norberto Bobbio18 «niun dubbio che la democrazia
perfetta, la democrazia ideale, se democrazia significa governo
del popolo e non in nome del popolo, sia la democrazia diretta».
Era stata, però, la necessaria ristrettezza dell’ambito, legata alla democrazia
degli antichi, inammissibile nella democrazia dei moderni, a
imporre il ricorso alla forma rappresentativa. Ad Atene nella Grecia
classica i cittadini titolari dei diritti politici furono sempre una minoranza,
sebbene invero ci fosse spazio fisico sufficiente, come è stato
indicato, perché alle assemblee deliberanti potessero partecipare contemporaneamente
diverse migliaia di persone. Pure Jean-Jacques
Rousseau, che nel Settecento esaltava la democrazia diretta, sapeva
bene che era regime adatto ai piccoli Stati, le cui dimensioni permettessero
ai cittadini, di fatto una piccola parte degli abitanti della città,
di riunirsi tutti insieme in una piazza.
Sennonché tale ‘ragionamento’ appariva ormai superato dal progresso
tecnologico. Se nella seconda metà degli anni ’70 Norberto
Bobbio aveva definito «ipotesi per ora ancora fantascientifica che
ogni cittadino possa trasmettere il proprio voto a un cervello elettronico
standosene comodamente a casa schiacciando un bottone»19,
fantascientifico non poteva apparire più, neppure in Italia, una volta
registrate le esperienze, anche e soprattutto comunali, di Stati Uniti,
Canada, Giappone, Israele20.
REFERENDUM DELIBERATIVO COMUNALE IN ITALIA 301
Nella cosiddetta democrazia elettronica l’aggettivo non era, questa
volta, qualificativo, ma indicativo del mezzo con cui, grazie alle
nuove tecnologie, poteva essere esercitata non solo la forma rappresentativa,
ma anche la diretta, finalmente praticabile su ampia scala.
Per esempio, come erano rilevabili i consumi domestici di ogni utente
senza visita personale del contatore, così l’elettore, con un micro-processore
di cui fosse stato dotato, avrebbe potuto votare in un senso o
nell’altro, entro un orario definito di un giorno definito, tempestivamente
annunciato21.
Certo, referendum e non assemblee. Ma queste ultime anche ad
Atene si concludevano con un voto, che, quanto a modalità, era una
specie di referendum. Venticinque secoli dopo non sarebbe stato che
un referendum il voto finale, decisivo, di un dibattito svolto prima,
per settimane, per mesi, in una sorta di assemblea, virtuale perché soprattutto
televisiva (ma non solo televisiva), però non necessariamente
meno partecipata. Essenziale è soltanto che anche siffatta prolungata
‘assemblea’ sia effettiva, che tutte le opinioni possano essere espresse
e che lo siano, per tutte, nelle sedi che raggiungono tutti: è il problema
del pensiero e della libertà di espressione del pensiero nell’età del
dominio dei mezzi di comunicazione di massa.
Compito di scienziati non integrati nel sistema politico vigente sarebbe
stato studiare e proporre pure in Italia lo sviluppo della democrazia
diretta attraverso le nuove tecnologie. I giuristi, in particolare,
avrebbero dovuto progettare e redigere la normativa garantistica relativa
e gli economisti far notare che erano precisi interessi economicosociali
ad essere contrari, in primis il monopolio della telefonia.
Viceversa la cultura giuridica e politologica si preoccupò piuttosto
di sottolineare i rischi della democrazia diretta elettronica, senza distinguere
neppure, per il centralismo di cui consapevolmente o inconsapevolmente
era tutta permeata, fra la dimensione locale e la dimensione
nazionale (nella quale, fra l’altro, già si praticava comunque il referendum
abrogativo). Non ci fu bisogno, per i partiti dell’epoca e i rispettivi
intellettuali, di una reiezione esplicita. Bastò la messa in guardia,
per l’emarginazione immediata del tema. Capitò così che studiosi
stranieri invitassero a «riflettere su quello che una simile reazione rivelava
sui loro veri atteggiamenti nei confronti della democrazia»22.
Ipotesi e proposte di qualche concreto esperimento di democrazia
diretta elettronica verranno esaminate comparativamente e avanzate,
nelle loro implicazioni tecniche e politologiche, dall’Isap23, ma senza
riscontro. I Comuni avrebbero mostrato disponibilità e interesse a
fornire servizi, soprattutto informativi, ai loro cittadini, ma non a
consentire loro la determinazione collettiva di scelte alternative nell’impiego
delle risorse pubbliche.
Eppure fino dagli anni ’80 si sarebbe potuto comprendere anche
302 ETTORE ROTELLI
in Italia, attraverso la lettura di fondamentali contributi stranieri24,
purtroppo lasciati subito cadere, che il timore dei partiti di una propria
sorte legata alla democrazia rappresentativa e di una perdita totale
di ruolo in caso di inserimento in questa della democrazia diretta
era un malinteso, colpevolmente non chiarito.
L’avvento della democrazia diretta, infatti, non vi era prospettato
come sostituzione della democrazia rappresentativa, bensì come integrazione
nel corso di un processo decisionale ininterrotto che necessariamente
era un continuum: è sempre la democrazia rappresentativa
a elaborare i quesiti alternativi cui sono chiamati a rispondere i cittadini
nella democrazia diretta; è sempre la democrazia rappresentativa
a scegliere i modi e, soprattutto, i tempi dell’esercizio della democrazia
diretta; è sempre l’iniziativa di alcuni, dunque ancora la democrazia
rappresentativa, ad attivare la democrazia diretta; è sempre la democrazia
rappresentativa ad attuare le deliberazioni della democrazia
diretta; è sempre la democrazia rappresentativa a organizzare e dirigere,
con la sua autorità, l’intero processo decisionale. Di qui, appunto,
integrazione e continuum.
Con quali dosi, tuttavia, di democrazia rappresentativa e, rispettivamente,
diretta? I giuristi comparatisti e, dopo di loro, i politologi
non hanno mai ritenuto che la quantità fosse elemento rilevante della
analisi istituzionale e della terapia conseguente e che quindi si potesse
applicare uno stesso modello a una dimensione demografico-territoriale
dieci o venti volte superiore o inferiore (Norvegia con Stati Uniti,
Israele con Germania, cantoni svizzeri con Länder tedeschi, Valle
d’Aosta con Lombardia, entrambe Regioni in Italia). Sennonché alla
medesima consistenza demografica corrispondono istituzioni di livello
e natura molto diversi. Nell’Europa comunitaria, oltre 50 milioni di
abitanti per i Paesi maggiori; 8-10 per un Paese minore, ma anche un
Land o una Regione di grandi dimensioni; 4-5 per un Paese di piccole
dimensioni, ma anche un Land o una Regione o un’area metropolitana
con la sua autorità. Ancora: 500 mila-1 milione di abitanti per
una piccola Regione, ma soprattutto un consistente ente intermedio
(Provincia) o un grande Comune; l’ente intermedio e il Comune medio
(o associazione di Comuni); infine il Comune piccolo o piccolissimo.
Come si vede, almeno sei dimensioni ed altre più articolate classificazioni
sarebbero possibili.
Non che, in sede applicativa, la democrazia diretta da inserire nel
mix con la democrazia rappresentativa debba essere inversamente
proporzionale all’ampiezza della dimensione. Ma, se si limita la comparazione
a due Paesi sicuramente federali, originarie confederazioni
di Stati trasformate poi in Stati federali veri e propri, si constata che i
cantoni elvetici sono in genere assai più piccoli degli Stati nord-americani,
pur essendo gli uni e gli altri non solo, giuridicamente, eleREFERENDUM
DELIBERATIVO COMUNALE IN ITALIA 303
mento costitutivo della federazione, ma anche maggior livello istituzionale
infra-federale.
Nel Paese, che aveva cominciato a conoscere esclusivamente il referendum
nazionale abrogativo, doveva essere posta, dunque, la questione
della democrazia diretta nella riforma degli ordinamenti locali.
Dopo il d.p.r. 616/1977 si sarebbe continuato a farlo fino alla legge
142/1990.
3. Senza ripercorrere qui gli innumerevoli passaggi e proposte di
tale lunghissimo iter, il progetto ‘apripista’, la «Nuova legge sull’amministrazione
locale»25, redatto nel 1976 all’Università di Pavia per
incarico della Regione Lombardia da professori rappresentativi di tutti
i maggiori orientamenti politici, va ricordato per l’imposizione a
tutti gli enti locali territoriali, a prescindere dalla dimensione, di un
unico schema organizzativo, quello della democrazia rappresentativa,
ad un livello istituzionale che si presentava come il più idoneo per
sperimentare forme alternative di democrazia diretta. Donde, anche
per questo, una solitaria critica immediata26.
Gli autori motivarono l’opzione col richiamo al modello politicorappresentativo
fondato sui partiti, vigente nell’organizzazione costituzionale
dello Stato. Ne erano derivati l’adozione generalizzata del
metodo elettorale proporzionale e, ammettevano, «l’atteggiarsi di fatto
dell’organizzazione degli enti locali in modo fortemente condizionato
dalla realtà dei partiti». Nondimeno, asserivano nel 1976, «gli
elementi propri dello schema partitico non solo risultano tuttora vitali,
ma appaiono strettamente legati e difficilmente scindibili dai caratteri
del nostro sistema politico». Tanto più – ecco la questione – che
«un’eventuale modifica degli aspetti connessi a tale modello sarebbe
qualcosa di più che una modifica dell’assetto organizzativo dell’amministrazione
locale, in quanto verrebbe ad incidere sul modo in cui
opera l’intero sistema politico a livello locale con non improbabili ripercussioni
anche ad altri livelli». Pertanto «una nuova legge sull’amministrazione
locale non sembra la sede più idonea per affrontare
questa tematica che ne travalica nettamente l’oggetto». Non resta che
«dare piena estensione ai principi organizzativi in cui si realizza il
modello politico-rappresentativo». Pertanto si rimetteva allo statuto,
senza alcun vincolo legislativo, disciplinare «le forme e i modi della
partecipazione popolare, anche sotto forma di iniziativa, alle attività
del Comune e della Provincia, nonché le possibili ipotesi di referendum
sui loro atti».
A sua volta, il miglior prodotto partitico di quella stagione27,
come fu considerato, prevedeva la partecipazione popolare anche attraverso
il referendum abrogativo, escluso però per bilanci e tributi, e
il referendum costitutivo non solo sullo statuto, ma anche per «altri
304 ETTORE ROTELLI
provvedimenti comunali e comprensoriali». Tuttavia «nelle forme e
nei limiti determinati dallo statuto» e con «modalità di indizione e
svolgimento dettate – si noti bene – dalla legge regionale».
Un decennio più tardi, quando la riforma comunale e provinciale
sembrò entrare nella fase risolutiva, ci si avvide che neppure sotto il
profilo della democrazia diretta erano stati compiuti progressi significativi
dai progetti del governo dell’epoca e dei partiti. Pure per questo
venne redatta e, nel luglio 1988, pubblicata dall’Isap quella «Legge
generale di autonomia dei Comuni e delle Province»28, che sarebbe
divenuta disegno di legge con la prima firma richiesta al senatore
a vita Norberto Bobbio. Conviene accennarvi perché avrebbe meritato
lunga fortuna critica nella giuspubblicistica successiva.
Anzitutto viene devoluta alle singole comunità locali la scelta mediante
referendum tra forma di governo ad elezione diretta del sindaco
e forma di governo consiliare. Così la decisione fondamentale non
è più assunta uniformemente dal legislatore (statale o regionale), ma
con voto popolare.
Accanto a questo referendum obbligatorio se ne prevede uno
eventuale: 1/10 degli elettori può esercitare l’iniziativa per gli atti di
competenza del Consiglio; qualora la proposta non sia approvata dallo
stesso nei novanta giorni seguenti, essa è sottoposta a referendum;
il Consiglio peraltro può predisporre un progetto alternativo ed in tal
caso gli elettori sono chiamati a scegliere tra l’iniziativa popolare e
quella consiliare. Il referendum è, così, deliberativo e non meramente
abrogativo: la possibilità di abrogare con referendum atti consiliari è
garantita in ogni caso purché si consenta di adottare con questo procedimento
tutti quelli di competenza consiliare, compresi l’annullamento
e la revoca di precedenti delibere.
Gli amministratori dell’ente, qualora non ritengano accoglibile
l’iniziativa popolare, possono proporne il rigetto agli elettori, ma anche
presentare un progetto alternativo: quest’ultima previsione nasce
dalla constatazione che molti problemi non sono più affrontabili in
termini di «sì» o di «no» e le implicazioni di singole decisioni spesso
sono equivoche. Sicché è sempre meno possibile limitarsi ad una scelta
di principio, rinviando ad un secondo momento la messa a punto
delle misure attuative: la decisione, per essere consapevole, presuppone
l’individuazione di una o più politiche alternative, già articolate
con precisione.
L’iniziativa e il referendum deliberativo sono previsti espressamente
anche per l’impiego alternativo delle risorse finanziarie con destinazione
determinata. La facoltà di attivare iniziativa e referendum per
promuovere qualsiasi atto di competenza consiliare consente di utilizzare
questa via anche per modifiche statutarie (come detto, la scelta in
ordine al sistema di governo è riservata comunque al referendum).
REFERENDUM DELIBERATIVO COMUNALE IN ITALIA 305
Mentre nelle altre proposte di legge coeve si demanda la materia
della democrazia diretta allo statuto, con la conseguenza di ottenerne
soltanto quanta la classe politica locale sia interessata ad accettare, col
progetto Isap il rischio è evitato perché lo statuto è nella piena disponibilità
del corpo elettorale, che, volendo, può imporre l’introduzione
degli strumenti che ritiene necessari.
Conclude il testo sul punto la disposizione transitoria per cui la
Regione deve prevedere lo svolgimento del referendum locale «mediante
l’applicazione delle tecnologie informatiche e telematiche».
Sennonché il legislatore del 1990 (n. 142, art. 6) ha battuto un’altra
strada29. Ha avocato bensì alla legge generale della Repubblica i referendum,
ma per escludere il deliberativo, sia propositivo sia abrogativo,
richiesto anche in aula con un emendamento, e per ammettere il
solo consultivo purché ben accetto in sede statutaria ai Consigli («Possono
essere ammessi referendum consultivi»). Ha fatto, così, ciò che
non avrebbe dovuto se avesse voluto garantire la partecipazione del
cittadino alla decisione effettiva nell’unica forma possibile. Ha circoscritto,
per giunta, tali referendum consultivi, con formula un po’ ambigua,
alle «materie di esclusiva competenza locale». Ha confermato
anche «che non possono aver luogo in coincidenza con altre operazioni
di voto»: principio, questo, spiegato dal ministro dell’Interno col
«facile rischio delle strumentalizzazioni del quesito referendario per
ragioni di schieramento», ma nient’affatto favorevole all’affluenza alle
urne. A ben vedere, in siffatta sottesa concezione la democrazia rappresentativa
è considerata superiore alla diretta, la seconda un «disturbo
» da evitare alla prima, quando non addirittura un pericolo, a motivo
della immaturità degli elettori, che, andando alle urne, confonderebbero,
nella contemporaneità, la elezione e il referendum ovvero
quello locale e quello nazionale, entrambi, a rigore, «operazioni di
voto» (che «i referendum locali possano svolgersi contestualmente alle
elezioni politiche o amministrative» era, invece, nel progetto Isap).
Si è trovata agevolmente, così, la convergenza delle burocrazie
partitiche. Per esempio, i referendum consultivi sono stati previsti
«anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini», come se
questa non dovesse essere l’ipotesi principale, per non dire esclusiva.
Tanto meno è sorto il dubbio che l’autonomia statutaria potesse comprendere
pure la determinazione della propria scadenza elettorale da
parte di ciascun ente (giorno, settimana, mese, stagione nell’anno
dato): ciò che sarebbe fattore, sia pure dapprima solo emblematico,
di autonomia, ma urterebbe contro l’idea che la campagna elettorale
non sia un fatto di amministratori locali, che debbano rendere conto
e proporre, bensì una visita di leaders nazionali, che non possono
muoversi dal centro se non insieme e una volta per tutte.
Gli è che le norme sulla partecipazione erano da porre come vin306
ETTORE ROTELLI
coli assoluti all’autonomia statutaria e non tanto per assicurare l’uguaglianza
fra tutti i cittadini, quanto per impedire che, secondo previsione,
la classe municipale, lasciata libera al riguardo, tendesse ad escludere
le forme più incisive, considerate un ostacolo alla propria azione.
Per questo era stato proposto espressamente (Isap) il referendum deliberativo,
propositivo (costitutivo) e abrogativo, con una formula limitativa
dell’oggetto, per cui «un numero di elettori pari a 1/10 può esercitare
l’iniziativa per gli atti di competenza del Consiglio o per l’impiego
alternativo di risorse finanziarie con destinazione determinata».
4. Nella redazione degli statuti i Consigli comunali hanno finito
col porre ulteriori limiti ai referendum, pur consultivi, e soprattutto
hanno circoscritto o annullato gli effetti politici negativi sugli amministratori
locali che non avessero voluto recepirne il risultato. E quello
che non hanno fatto i Consigli comunali, lo hanno fatto i Comitati regionali
di controllo.
In particolare, un tentativo di utilizzare il referendum consultivo
con la maggiore ampiezza possibile entro i limiti posti dalla legge
142/1990 venne compiuto, fra 1991 e 1992, nella redazione dello statuto
del Comune di Milano30. Nonostante gli ostacoli frapposti dal
vertice della burocrazia comunale, poi dai gruppi consiliari e infine
dagli organi di controllo, ne risultò, infine, una gamma piuttosto articolata
di istituti, compresi fra il referendum di proposta popolare e il
referendum di indirizzo da un lato e il referendum di consultazione
successiva dall’altro.
Il primo è indetto sulla proposta di deliberazione di iniziativa popolare,
presentata con uno schema da non meno di 5.000 cittadini,
quando ne faccia richiesta l’1,5% degli iscritti alle liste elettorali,
sempre che nel frattempo la proposta stessa non sia stata approvata
dall’organo comunale (giudica il collegio dei garanti sulla corrispondenza
alle istanze dei promotori).
Il referendum di indirizzo, anch’esso ovviamente consultivo, su
scelte o orientamenti del Comune (o per i quali questo possa esprimere
un parere), è indetto su richiesta del medesimo 1,5% dei cittadini.
Il referendum di consultazione successiva, infine, è indetto sulle
proposte di deliberazioni di revoca di deliberazioni del Consiglio (e,
nei casi previsti, della Giunta) ove presentate entro 120 giorni dalla
esecutività dell’atto e sottoscritte dal 3% dei cittadini, a meno che
successivamente non vi sia stato annullamento o revoca.
Rilevante è poi la normativa sugli effetti connessi a tali referendum:
l’obbligo dell’organo comunale competente di provvedere entro
60 giorni sull’oggetto del referendum e di indicare espressamente i
motivi ove non si uniformi all’avviso degli elettori, che sia stato favorevole
al referendum proposto. Inoltre il Consiglio comunale è chiaREFERENDUM
DELIBERATIVO COMUNALE IN ITALIA 307
mato comunque a pronunciarsi prima della deliberazione quando
questa spetti ad altro organo.
La linea referendaria testé descritta, palesemente derivante dalla
impostazione del progetto Isap del 1988 e, come detto, ristretta negli
angusti limiti della legge 142/1990, poté essere estesa, in Emilia Romagna,
alla Provincia di Reggio Emilia e al Comune di Imola, i cui
statuti si distinsero da tutti gli altri della Regione per la definizione
stessa dei medesimi, subito contestata dall’organo di controllo, come
atti di riconoscimento e di costituzione della comunità e, rispettivamente,
dell’ente, anziché come atti di organizzazione interna (mentre
il Comune di Imola eviterà l’annullamento modificando la formula
nel senso di «atto che riconosce ed esprime l’autonomia della comunità
imolese», la Provincia di Reggio Emilia non ci riuscirà per essersi
limitata ad aggiungere «atto fondamentale per l’organizzazione dell’ente
» ad «atto di riconoscimento, costituzione e ordinamento della
comunità provinciale»)31.
Se le Province di Bologna, Forlì, Modena, Parma e Ferrara parlavano
di referendum semplicemente consultivo, quella di Reggio (analogamente
al Comune di Imola) specificava: «sulla proposta e rimozione
di atti». Mentre questa chiedeva l’iniziativa dell’1,5% degli elettori
residenti, per le altre si indicavano 10 mila o 15 (Ferrara) o 20
(Modena). Ed ancora la diversità appariva nella elencazione degli atti
esclusi dal referendum e soprattutto nell’assenza, solo per Reggio
Emilia, di limiti cronologici32.
5. Nel frattempo la ‘dottrina’ prevalente, legata ai partiti intesi
come organizzazioni, pertanto ostile alle «tendenze movimentiste e
partecipatorie», aveva conservato il suo tradizionale orientamento. All’indomani
della legge 142/1990, di fronte alla «delusione di molti»
per la «grande parsimonia» del legislatore sui referendum locali, continuò
a escludere che ogni previsione di democrazia diretta introducesse
un «plusvalore» rispetto alla rappresentativa e, specificamente,
che i referendum abrogativi e approvativi lo realizzassero più intensamente
del referendum consultivo. A torto, per essa, Costantino Mortati
aveva argomentato all’Assemblea costituente che, se il popolo sovrano
interviene, è per decidere e non per esprimere un parere. La
scelta del legislatore del 1990 non aveva bisogno di «giudizi positivi o
negativi». L’istituto del referendum «poteva essere previsto oppure
no», non essendo «certo essenziale alla forma di governo locale»33.
Insomma, andava bene così.
Dev’essere ancora, un decennio più tardi, la convinzione del legislatore
della cosiddetta seconda Repubblica. La riforma della legge
142/1990, approvata in via definitiva dal Senato il 22 luglio 1999
(A.S. 1388, A.C. 4493), ha toccato pure il comma 3 dell’articolo 6,
308 ETTORE ROTELLI
che prima recitava: «Possono essere previsti i referendum consultivi
anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini». In sostanza, è
stato soppresso l’aggettivo «consultivi» e quindi, implicitamente, si
sono ammessi anche i referendum deliberativi, abrogativi o costitutivi.
Ma ciò non è stato imposto ai Consigli comunali. Si tratta, semplicemente,
di una facoltà della quale difficilmente essi si avvarranno.
NOTE
1 A. Negri, Democrazia diretta, in Scienze politiche/1, Milano, 1970, pp. 98-99.
2 La distinzione in L. Gallino, Dizionario di sociologia, Torino, 1978, p. 498.
3 M.P. Chiti, Partecipazione popolare e democrazia diretta, Pisa, 1977, secondo cui
«gli istituti di democrazia diretta non appartengono alla sfera della partecipazione popolare
».
4 F. Galgano, in Statuti regionali comparati, Bologna, 1972, p. VII.
5 E. Rotelli, Le Regioni: proposte per un riesame del problema, in «il Mulino»,
1968, 191, pp. 750-773.
6 E. Santarelli, Dossier sulle Regioni, Bari, 1970, per il quale «le elezioni dei Consigli
regionali sollecitano implicitamente passi decisivi verso la trasformazione socialista
della società» (p. 6), mentre la tendenza «neorevisionista» (cfr. nota precedente), che
«tenta di incanalare verso l’ordinamento regionale tutta una serie di funzioni sovrastrutturali
e infrastrutturali, in un disegno neocapitalistico», è «l’elaborazione più ‘aggiornata’
prodotta da un nuovo tipo di ‘intellettuali’ indirettamente collegati ai poteri
del meccanismo produttivo dominante, inseriti in ben definiti e abbastanza attivi centri
e istituti di cultura, che si dedicano allo sviluppo della scienza amministrativa» (p. 21).
7 A. Barbera, Le istituzioni del pluralismo, Bari, 1970, pp. 280 e 303.
8 G. Fanti, Introduzione ai lavori, in Le Regioni per la riforma dello Stato, Bologna,
1976, p. 19.
9 F. D’Onofrio, Prospettive di riforma del governo locale, in «Esperienze amministrative
», 1976, 11, pp. 41-42.
10 R. Zangheri, I Comuni, in Programmazione, autonomie, partecipazione, I, Roma,
1978, p. 46.
11 G. Quaranta, Governabilità e democrazia diretta, Bari, 1981, pp. 166-168.
12 N. Bobbio, Democrazia rappresentativa e democrazia diretta, in Democrazia e
partecipazione, Torino, 1978, p. 22, poi in Id., Il futuro della democrazia, Torino, 1984.
13 E. Rotelli, Per la democrazia diretta nell’amministrazione locale, in «Politica del
diritto», 1977, 4.
14 Id., Gli ordinamenti locali della Lombardia pre-unitaria, in «Archivio storico
lombardo», 1975, p. 171-234, poi in Id., L’alternativa delle autonomie, Milano, 1978.
15 A. Negri, Democrazia diretta, cit.
16 N. Bobbio, Quale socialismo?, Torino, 1976, p. 46.
17 Cfr. l’art. cit. nella nota 13, poi nel suo volume La non riforma. Le autonomie
locali nell’età dei partiti, Roma, 1981.
18 N. Bobbio, Quale socialismo?, cit.
19 Id., Democrazia rappresentativa e democrazia diretta, cit.
20 C. Maggi, La democrazia elettronica, in Odissea informatica, I, Milano, 1984, p.
411.
21 L. Gallino, Democrazia, processi decisionali e informatica, in Odissea informatica,
II, Milano 1985: «premere il pulsante in una cabina elettronica o nel proprio tinello
rappresenterebbe solamente l’ultimo atto di un reale e diffuso processo di partecipazione
collettiva al processo decisionale nel sistema politico».
22 Si tratta di R.P. Wolff citato da L. Gallino, Informatica e qualità del lavoro,
Torino, 1983, p. 31.
REFERENDUM DELIBERATIVO COMUNALE IN ITALIA 309
23 Nel n. 2-3, 1990, di «Amministrare», dedicato a Nuove tecnologie e democrazia
locale, contenente i seguenti saggi: G. De Michelis, Il possibile dell’informatica e i processi
democratici; P.M. Manacorda, Le nuove tecnologie della comunicazione per la democrazia
locale; G. Majone, Le scelte pubbliche e le nuove tecnologie; L. Bobbio, I processi
decisionali politico-amministrativi e le immagini del «policy-making»; S. Vicari, La
democrazia locale e le nuove tecnologie: gli Stati Uniti; D. Lytel, La democrazia locale e
le nuove tecnologie: la Francia; Id., La politica dei nuovi media: il Giappone; P. Barrera,
Referendum locali e autoriforma comunale.
24 E.W. Böckenförde, Democrazia e rappresentanza, in «Quaderni Costituzionali»,
1985, 2, che è la versione italiana di un saggio del 1982, riprodotto in forma leggermente
mutata, nel 1983, col titolo Demokratie und Repräsentation.
25 Nuova legge sull’amministrazione locale, Pavia, 1976 (ottobre). Con il coordinamento
di U. Pototschnig, collaborarono U. Allegretti, E. Balboni, A. Barbera, F. Bassanini,
G. Berti, G. Bognetti, E. Chiti, M. Colucci, B. Dente, A. Majocchi, F. Merusi, G.
Mor, V. Onida, G. Pastori, F.C. Rampulla, A. Robecchi Majnardi, D. Serrani, D. Sorace,
G. Zagrebelsky.
26 Oltreché nell’articolo cit. nella nota 13, anche in E. Rotelli, Le Regioni dalla
partecipazione al partito testo redatto agli inizi del 1977 per il seminario della Fondazione
Einaudi (Torino, marzo 1977), poi in La crisi italiana, II, Torino 1979, dove fra
l’altro si leggeva: «non può non colpire che di tutte le numerose critiche rivolte al progetto
nessuna abbia contestato la scelta contro ogni forma di democrazia diretta che gli
autori si sono assunti la responsabilità di compiere»; in tal modo si è impedito che
«l’autonomia statutaria dell’ente locale possa pervenire a moduli alternativi rispetto alla
democrazia rappresentativa».
In seguito l’opzione suddetta è stata sottolineata da P.V. Uleri, Le consultazioni
popolari a livello comunale in Italia: un problema di legittimazione politica, in «Regione
e governo locale», 1986, 3-5, p. 81.
27 Per la Repubblica delle autonomie. Proposta socialista per la riforma dei poteri
locali, Milano, 1978.
28 Legge generale di autonomia dei Comuni e delle Province. Ricerca Isap di progetto
di riforma, in «Amministrare», 1989, 1-2 (ma l’articolato era stato allegato anche
come supplemento al n. 2/1998), dove il commento di G. Corso, A. Pubusa, G. Pasquino,
A. Bardusco, E. Samek Ludovici, A. Crosetti, G. Barone, U. De Siervo, F.
Benvenuti. Con il coordinamento di E. Rotelli l’articolato è stato elaborato, fra il 2/6/
1986 e il 3/6/1988, con la collaborazione di A. Majocchi, G. Mor, V. Onida, A. Pizzorusso,
F. Trimarchi Banfi, G. Zagrebelsky (segreteria di V. Angiolini). Atto Senato n.
1989 (1/2/1989).
29 Le critiche immediate, anche sul punto, pur esse, all’epoca, solitarie, in E. Rotelli,
Il martello e l’incudine. Comuni e Province fra cittadini e apparati, Bologna, 1991,
e Id., Dalla parte delle autonomie. Un quinquennio e il suo epilogo, Gorle, 1991.
30 Cfr. Anci, Gli statuti delle città, Roma, 1992, pp. 109 ss.
31 Sulla peculiare vicenda degli stessi, redatti con la collaborazione tecnica, rispettivamente
«concorrente ed esclusiva» dello scrivente, cfr. «Regione e governo locale»,
1993, 1-2, p. 61.
32 Ibid., pp. 254 ss.
33 Cfr., per tutti, Referendum. Problemi teorici ed esperienze costituzionali, Bari,
1992, dove si condivide nella Introduzione (M. Luciani, p. 11) la valutazione che i referendum
consultivi locali hanno potenzialità «non necessariamente inferiori a quelle dei
referendum approvativi o abrogativi», espressa nel testo specifico (pp. 150-176). Ivi si
citano, peraltro, interventi di P. Barrera, anteriori alla legge 142/1990, e non il suo Il
referendum negli ordinamenti regionali e locali, Napoli, 1992, che, nella medesima, ritrova
invece il «sostanziale sfavore» riservato dal legislatore al referendum, «non sempre
contrastato dagli stessi enti locali nell’esercizio dell’autonomia statutaria» (p. 161).

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