UNA CITTÀ n. 135 / gennaio 2006 PIER PAOLO FANESI
L’ASSEMBLEA DI QUARTIERE
Il bilancio partecipato non è solo una generica consultazione popolare, ma la messa in campo di una serie di procedure definite perché i cittadini possano partecipare alle decisioni. L’esperienza di Grottammare, dove dal bilancio si è passati a un problema ben più complesso come il piano regolatore. La forza che dà la partecipazione dei cittadini anche per fronteggiare gli interessi speculativi. Intervento di Pier Paolo Fanesi.
Pier Paolo Fanesi è responsabile dell’Ufficio Democrazia Partecipativa del Comune di Grottammare (AP). Pubblichiamo il suo intervento al convegno “Il mutualismo oggi”, organizzato lo scorso gennaio a Forlì dalla Fondazione Alfred Lewin e da Una Città.
Da ormai dieci anni lavoro al municipio di Grottammare, piccolo comune dell’Ascolano, dove mi occupo di istanze e procedure partecipative, in primis il bilancio partecipativo.
Grottammare è un paese di quindicimila abitanti, situato nel sud delle Marche, ed è stato uno dei primi comuni italiani ad avviare una sperimentazione di bilancio partecipato, di democrazia partecipativa. Tanto che viene spesso paragonato a Porto Alegre.
Ovviamente gli amministratori sono i primi a prendere le distanze da questo tipo di paragone, perché è vero che ci rifacciamo in parte a quell’esperienza, da cui siamo stati positivamente influenzati, ma le realtà sociali e le dimensioni con le quali ci confrontiamo sono diverse. A Porto Alegre c’è un problema di favelas, disagi sociali radicali, a Grottammare il processo partecipativo ha preso piede su un tessuto socio-economico di benessere, fondato principalmente sul turismo. Da qualche anno otteniamo quattro “vele” e quest’anno abbiamo ricevuto il punteggio più alto dell’intera costa marchigiana.
La storia del bilancio partecipativo
Il bilancio partecipativo è un progetto nato in Sudamerica, a Porto Alegre, alla fine degli anni ’80, con la vittoria del Partito dei lavoratori, che giunto al potere lancia la scommessa del governo partecipato. La sfida era quella di decidere assieme alle persone, di trasferire il potere decisionale dalle istituzioni alla cittadinanza. Un processo iniziato a rilento, ma che negli anni ha guadagnato la fiducia e la legittimità generale, tanto è vero che la destra, uscita vittoriosa alle ultime elezioni, ha fatto proprio quel percorso e lo sta portando avanti.
In Italia quell’esperimento è salito alla ribalta grazie soprattutto ai social forum, quelli europei e quello tenutosi appunto a Porto Alegre, dove studiosi e amministratori italiani si sono incontrati, alcuni decidendo di adottare lo stesso approccio.
E’ difficile stabilire cos’è e cosa non è un bilancio partecipativo. Più che un documento contabile, un regolamento, l’articolo di uno statuto comunale, a me piace definirlo un percorso fatto di volti, persone, opportunità, vittorie e sconfitte, come pure di risultati inaspettati. Non è possibile quindi definire con una linea precisa quando si può (e quando invece non si può) parlare di bilancio partecipato. Proprio per avere delle indicazioni sono stati stilati alcuni parametri. Sono così usciti cinque punti fondamentali che ci permettono di distinguere un reale bilancio partecipativo da un’esperienza di altro tipo.
Quando parliamo di bilancio partecipativo? Quando abbiamo una dimensione finanziaria. Cioè parliamo di bilancio partecipativo quando parliamo di risorse, non solo di progetti.
In secondo luogo, il bilancio partecipativo non può fermarsi ad aspetti di “vicinato”, deve assumere un vero modello di sviluppo locale: bisogna portare le persone a decidere appunto su un paradigma di sviluppo della propria collettività e comunità. Non basta poter decidere sulle piccole cose. Sebbene rimanga un gioco a somma positiva, nel senso che va bene anche una partecipazione cittadina, dove talvolta si decide moltissimo, parliamo di bilancio partecipativo quando effettivamente c’è un processo di codecisione in termini di modelli di sviluppo, di scenari condivisi.
Dev’esserci poi la presenza di una ciclicità, nel senso che il bilancio partecipativo non può rimanere isolato all’interno di un’assemblea, di un momento. La partecipazione deve riguardare un percorso, non solo una tappa, altrimenti il rischio è quello di un ascolto “selettivo” da parte delle istituzioni: chiamo i cittadini in assemblea, li interrogo su una questione precisa, l’idea a me più consona, la realizzo e poi la cosa finisce lì. Questo non è bilancio partecipativo.
Il bilancio partecipativo inoltre deve avere alcuni momenti deliberativi: un percorso di questo tipo comporta una cessione di potere. La partecipazione deve andare a intaccare i meccanismi tradizionali; deve entrare nella “scatola decisionale” in un modo o nell’altro.
Infine devono esserci regole chiare e al contempo modificabili. La partecipazione si deve poter nutrire di partecipazione, quindi le modalità della partecipazione sono anch’esse soggette al medesimo processo. Tutto questo per dire anche che il bilancio partecipativo non è un kit da esportare da un Comune all’altro.
A Grottammare il bilancio partecipativo viene introdotto agli inizi degli anni ’90, più precisamente nel 1994. A livello internazionale la globalizzazione ha già iniziato a mostrare la sua faccia meno pulita, con tutte le contraddizioni e i paradossi su cui è chiamata in causa. E’ ormai chiaro che le grandi decisioni vengono prese a livelli sovranazionali, in arene lontane dal cittadino, per di più sempre maggiormente orientate su scenari economici e non politici. Organismi come il Fmi, la Banca Mondiale, la stessa Europa, nel migliore dei casi soffrono di un deficit di legittimazione. A livello nazionale la situazione non è più rosea: nel 1992 viene arrestato Mario Chiesa e da lì viene a galla il sistema di corruzione passato poi alle cronache come Tangentopoli.
Grottammare viene da una storia politico-amministrativa tutt’altro che originale, quarant’anni di governo democristiano, nessuna operazione di decentramento né di partecipazione. Nel 1993 si va alle elezioni e vince il centrodestra che per problemi interni non riesce però a portare a termine il mandato. Si arriva così al commissariamento dell’amministrazione.
In questi stessi anni prende vita un movimento cittadino che si chiama “Solidarietà e partecipazione”. Questa lista si presenta alle elezioni del 1994 alleata ad alcune forze di centro-sinistra e vince sbaragliando i partiti tradizionali. Quello è un po’ l’anno zero dei meccanismi partecipativi che vorrei ora raccontare.
La nuova giunta, fatta di giovani, cittadini provenienti dalla società civile, fuoriusciti dai partiti, trovandosi ad affrontare un problema così grosso come quello di dover amministrare una collettività, comincia a convocare le persone proprio allo scopo di stilare un bilancio: cosa ci devono mettere, quali istanze devono portare all’interno del documento contabile, ecc. Si formano così dei comitati di quartiere e piano piano, in maniera del tutto inconsapevole, si va a formare un modello di bilancio partecipativo che oggi risulta piuttosto strutturato e che ha la finalità di delegare decisioni importanti alla cittadinanza.
Assemblee e comitati, usciti come proposte informali, spontanee, dalla giunta neoeletta, col tempo si sono consolidati e sono diventati le due colonne attorno a cui, a tutt’oggi, si struttura il percorso del bilancio partecipativo e della democrazia partecipativa in generale.
Gli aspetti tecnici
L’aspetto tecnico di questi processi viene spesso lasciato nell’ombra. Credo sia invece opportuno spendere qualche parola per raccontarlo.
Intanto va detto che le assemblee di quartiere sono anche il prodotto di una divisione territoriale venuta fuori tenendo conto della conformazione morfologica del territorio: sono stati individuati quattro quartieri e sono nati quattro comitati, dove sono state indette assemblee prima e dopo il bilancio.
Dal 1994 al 2003 il processo di bilancio partecipativo ha funzionato essenzialmente secondo questo schema: un primo ciclo assembleare con un valore propositivo, in cui far emergere le cose; poi seguiva la redazione del bilancio con ulteriori assemblee che andavano a verificare cosa era stato inserito e cosa no dalla giunta. Di fatto i comitati di quartiere agivano parallelamente, nel senso che se le assemblee rappresentavano una dimensione collettiva, fondamentale alla partecipazione, i comitati di quartiere davano una garanzia di continuità.
Nella partecipazione la dimensione collettiva è fondamentale affinché la battaglia del singolo diventi battaglia comune. Del resto il bilancio partecipativo nasce per fronteggiare una necessità prima ancora dell’amministrazione che dei cittadini.
Nel 2003 è avvenuta una ristrutturazione nell’articolazione di questo processo. Innanzitutto sono aumentati i quartieri, da quattro a sette. Questo per un motivo molto semplice: per avere assemblee di una dimensione più gestibile. Ovviamente questo ha reso il tutto più faticoso, perché le assemblee di quartiere per gli amministratori sono tutt’altro che momenti di relax: è il momento in cui il problema del singolo diventa problema di tutti. L’idea di avere più assemblee, ma con dimensioni numeriche ridotte, è nata anche per agevolare tutte quelle persone (anziani, immigrati, analfabeti) che avrebbero fatto fatica a prendere la parola in ambiti più affollati. Si voleva evitare che a intervenire fossero sempre e soltanto il presidente dell’associazione o del comitato di turno, o il segretario di partito.
Quindi sette assemblee, da cui emergono tutte le richieste della cittadinanza, fino a generare un vero e proprio elenco. Successivamente si fa un tavolo tecnico, in cui vengono stralciate tutte quelle richieste che per difetto di competenza il Comune non può accogliere. Segue il tavolo partecipativo dei quartieri, che è un momento di incontro tra la giunta e i portavoce delle assemblee dei quartieri. E’ il tavolo a cui vengono portate tutte le richieste dei cittadini.
Tali proposte, tutte verbalizzate, sono elaborate dagli uffici comunali e suddivise in tre categorie: segnalazioni, proposte di interesse di quartiere, proposte di rilevanza cittadina.
Le segnalazioni, inerenti a problematiche minori (vigilanza, raccolta rifiuti, segnaletica, piccole manutenzioni ecc.) e su cui in genere c’è poco da decidere, vengono inoltrate direttamente agli uffici preposti alla loro soluzione.
Le proposte di interventi di quartiere e quelle di rilevanza cittadina, integrate con altre pervenute agli amministratori attraverso altri mezzi (lettere, e-mail, incontri diretti nella sede municipale), vengono riportate nelle assemblee di quartiere, nell’ambito di un secondo ciclo di incontri, in cui i cittadini possono singolarmente esprimere, anche alla luce dell’analisi di fattibilità e di costo, il proprio voto per indicare l’ordine di priorità. Ne scaturisce una graduatoria di interventi da mettere in atto, che l’Amministrazione Comunale si impegna a rispettare rigorosamente.
Le preferenze emerse complessivamente riguardo le priorità di rilevanza cittadina, anch’esse sottoposte al voto su un’apposita scheda, vanno a costituire invece una griglia di verifica del programma di mandato dell’Amministrazione Comunale.
Quindi, riassumendo, primo ciclo di assemblee, elenco generale delle richieste, tavolo partecipativo dei quartieri, tripartizione delle richieste, secondo ciclo di assemblee di quartiere in cui i cittadini vengono informati e votano.
Quest’anno siamo al 70% rispetto alla realizzazione sia degli interventi di quartiere sia di quelli cittadini. Sono proporzioni importanti.
Come funzionano le assemblee? In quelle del primo ciclo c’è il sindaco che spiega ciò che è emerso ed è stato (o non è stato) realizzato nel bilancio partecipativo dell’anno precedente, e perché. Si illustra e si contestualizza il bilancio. Perché a colpi di finanziarie le risorse stanno subendo grandi tagli. Poi prendono la parola i cittadini ed espongono i problemi.
Nel secondo ciclo di assemblee il problema è simile: si parla degli interventi di quartiere e cittadini su cui si andrà a votare. Quindi sono più mirate e finalizzate alla votazione, il momento conclusivo dell’assemblea.
Questa è un po’ la struttura. Dalla ricerca che ho condotto sul bilancio partecipativo di Grottammare ho ricostruito un percorso fatto di 124 processi decisionali effettuati nei dieci anni di sperimentazione. Questo per dare anche l’idea della complessità insita in scenari di questo tipo.
I limiti del bilancio partecipativo
Il bilancio partecipativo non è tutto rose e fiori, come può apparire sulla carta. Le assemblee di quartiere sono sempre da costruire. All’inizio ricordo un’assemblea di quartiere con due cittadini. Ad altre casomai partecipavano 850 persone e diventavano ugualmente ingestibili. E’ un processo che alterna opportunità e impasse. Bisogna poi far sempre i conti con questioni “esogene” perché i Comuni oggi devono far fronte a un trasferimento di competenze e contemporaneamente a un taglio delle risorse!
Questo è un problema enorme perché se c’è poco a disposizione si rischia di far morire la partecipazione insieme al bilancio. Il bilancio partecipativo infatti interviene solo sulla distribuzione delle risorse. Di qui una prima considerazione: ma se questo meccanismo funziona perché non allargarlo anche ad altri ambiti?
Nel 1997 si doveva toccare il piano regolatore generale. Alle assemblee partecipative del bilancio è presto emersa con forza la necessità di intervenire anche in questi meccanismi.
Sono nate così decine di assemblee tematiche e un Ufficio di piano regolatore aperto tutti i giorni, con la presenza di alcuni facilitatori che spiegavano ai cittadini cosa rappresentasse questo documento all’apparenza così ostico, con disegni di piazze, strade, ecc., e ne delineavano i punti più importanti, le scelte strategiche che stavano per essere fatte.
Un percorso che dall’Ufficio del piano regolatore ha raggiunto e coinvolto centinaia di persone. E’ caduto così l’argomento in base al quale i cittadini non possono intervenire sul piano regolatore in quanto troppo complicato.
Ebbene, quel piano regolatore, bloccato da venticinque anni, proprio perché ostaggio di interessi politici ed economici, una volta sottoposto a una legislazione popolare così forte, è stato modificato nel giro di un anno e mezzo, due anni, riuscendo a tagliare un milione di metri cubi di area edificabile, riportando parte del territorio a zona agricola.
Il progettista addetto mi ha confessato che mai gli era capitato di veder ridotto il volume di edificabilità. Non solo è stato sventato il ben noto rischio che a prevalere siano gli interessi privati, ma è stato anche sfatato uno dei luoghi comuni per cui la partecipazione allunga i tempi dei processi. In questo caso li ha accorciati.
Altro strumento su cui abbiamo sperimentato la partecipazione è quello che noi chiamiamo la “riunione del mercoledì”. Una scadenza settimanale in cui il movimento si riunisce con autoconvocazione, a cui tutti i cittadini possono partecipare. E’ un momento molto particolare, a volte più partecipato, a volte meno. In questa sede non si vota, si procede per deliberazioni. Non ci sono interessi da difendere, non c’è negoziazione, non è un tavolo in cui cedo qualcosa in cambio di qualcos’altro. E’ un po’ la riunione dell’esecutivo in cui i cittadini, tutti, possono intervenire.
Un altro momento in cui la partecipazione è stata importante è stato l’accordo di programma, uno strumento che fa un po’ drizzare i capelli, nel senso che si va in deroga ad alcuni schemi, perché alla fine il pubblico va a contrattare col privato. Una situazione molto delicata perché il privato, avendo a che fare con un interesse collettivo, in genere alza il prezzo.
Ebbene, a Grottammare, in sede di bilancio partecipativo è stata votata la riqualificazione di una zona. Anche qui si è cercato di procedere in maniera inclusiva, nel senso che si sono svolte delle assemblee prima che il sindaco incontrasse il privato. La cittadinanza ha così elaborato un mandato, in cinque punti, a cui il il primo cittadino doveva attenersi, del tipo “in quell’area vogliamo case-alloggio per gli anziani, zona verde, parcheggio, ecc.”. Così il sindaco, il giorno clou della contrattazione col privato, è arrivato con le spalle coperte: aveva un mandato a cui attenersi: “Io non posso discostarmi da questi cinque punti”.
Il privato inizialmente non ha firmato, ma il sindaco è rimasto fermo: “Non posso e non voglio derogare al mandato. Non potrei tornare da quella gente”, e non se n’è fatto niente. Si è indetto il Consiglio comunale, ma un’ora prima il privato ha firmato l’accordo di programma. Aveva tentato un rialzo, ma gli è andata male. Ora stiamo provando a spostare la partecipazione anche alla progettazione dei singoli interventi, la riqualificazione di una piazza, la ristrutturazione di una chiesa, ecc. Anche qui sono state indette alcune assemblee con cittadini e progettista. Il prete, che sapeva di quest’intenzione di indire un’assemblea pubblica, ha addirittura offerto la chiesa. Un’assemblea stravagante, un momento significativo.
Partecipazione e inclusione sociale
In questi dieci anni, seguendo passo passo le richieste dei cittadini, avevo rilevato un’apparente anomalia: specie nel momento iniziale, la maggior parte provenivano soprattutto da due quartieri (Ischia I e Ischia II), che quasi monopolizzavano l’attenzione dell’amministrazione a scapito degli altri quartieri. Non essendo del posto ho avviato un’analisi sociologica.
Parlando con la gente, col sindaco dell’epoca, ho così scoperto che si trattava di due zone fortemente degradate, con un deficit di appartenenza, vittime di una pianificazione territoriale assolutamente scriteriata, punto di approdo di un’immigrazione interna ed esterna, che aveva portato a un’urbanizzazione selvaggia senza punti di aggregazione sociale, spazi verdi. Veri e propri quartieri dormitorio.
Non a caso le prime assemblee erano state letteralmente prese d’assalto dagli abitanti di questi quartieri che chiedevano all’amministrazione più attenzione e opere di sostegno alle fasce più deboli della società. Qui la partecipazione è stata proprio una scuola di cittadinanza, con comitati di quartiere attivissimi, in grado di stare nel processo in maniera fattiva, nonostante sia un percorso irto di difficoltà. Tutto questo ha messo in atto dinamiche di inclusione sociale molto forti, in un’ottica di redistribuzione delle risorse che dal centro ha investito la periferia. Tant’è che oggi queste zone hanno risolto molti dei loro problemi. Purtroppo, con il miglioramento delle condizioni, la partecipazione, ahimé, è scesa.
Ecco, questo è un altro ambito in cui forse vale la pena interrogarsi. La partecipazione è un processo che favorisce inclusione sociale perché promuove la redistribuzione delle risorse. Come far sì che il successo di questo processo non coincida con un ritiro della partecipazione?
Tipologia delle richieste
Ho parlato di tagli, ma non vorrei essere frainteso, legittimando argomenti che non condivido. A fronte di una serie di obiezioni che spesso mi facevano i sindaci e gli assessori che in questi anni ho incontrato -“Io non posso fare il bilancio partecipativo. Mi piacerebbe ma non posso far decidere le persone perché non ho i soldi”- devo dire che dalla mia indagine risulta che il 70% delle richieste dei cittadini sono a costo medio-basso.
C’è un altro dato rilevante: la partecipazione e le sue istanze in questi dieci anni si sono trasformate. Se prima le rivendicazioni erano legate soprattutto all’urbanistica, alla viabilità, all’arredo urbano, col passare del tempo c’è stata una sorta di “apprendimento sociale” che ha portato la cittadinanza a orientare le proprie richieste al campo della cultura, dei servizi sociali, a politiche di integrazione. E’ proprio cambiata la natura delle richieste.
Un’altra domanda che mi sono posto è quanto il bilancio partecipativo incida realmente nella vita della gente: quante richieste emerse nelle assemblee hanno visto la realizzazione? Qui la percentuale è del 90%. Questo significa che è un percorso importante sia per la base che per il vertice, se così possiamo dire, nel senso che non si è trattato di contentini elargiti in periodo elettorale.
Democrazia rappresentativa
e democrazia partecipativa
Fin qui ho parlato di bilancio partecipativo intendendo la presenza di elementi di democrazia diretta in un tessuto rappresentativo. Faccio questa precisazione per dire che il bilancio partecipativo si pone l’obiettivo di promuovere una pratica di democrazia dal basso, ma senza sostituirsi alla democrazia rappresentativa. Non è quindi propriamente un istituto di democrazia diretta, ma un mix di democrazia rappresentativa e di democrazia “partecipativa”.
Ciò dovrebbe favorire da una parte una maggior prossimità tra le scelte operate dall’amministrazione e i desideri dei cittadini, dall’altra una maggiore possibilità da parte dei settori deboli della società di rappresentare i propri interessi. Diciamo che è una sorta di lubrificante che serve a rendere più agevole e giusto (nel senso di più aderente alle esigenze della collettività) il processo tradizionale.
Inoltre, fondamentale è il fatto che l’emersione del problema porta con sé la sua assunzione nell’agenda del politico. Tante volte non decidere è già un esercizio di potere, è già una decisione. Questo il bilancio partecipativo non lo permette: alle assemblee civiche, l’immigrato, la casalinga, il pensionato, il precario, tutti i cittadini non affiliati a un partito, sono legittimati ad avanzare rivendicazioni, a sollevare problemi a cui il politico non può sottrarsi. Non è più il politico a decidere cos’è un problema e cosa non lo è. La partecipazione inoltre struttura alcune alternative al problema, pur senza intervenire in modo fattivo (quest’ambito resta ai tecnici).
L’ultimo rischio che vorrei menzionare è che a fronte di tante piccole amministrazioni che stanno compiendo percorsi importanti, bisogna anche dire che, in alcune realtà, dietro la formula del bilancio partecipativo si nasconde il niente. Di nuovo, il bilancio partecipativo non è la piccola assemblea convocata prima dell’approvazione di un bilancio che ha avuto un percorso lontano dai cittadini, che non hanno la possibilità di incidere realmente.
Vorrei fare un ultimo appunto. L’amministrazione spesso si trova a dover risolvere problemi che non necessariamente hanno a che fare col bilancio. Qui c’era il problema del “paese alto”. Il centro abitato di Grottammare ha due grandi agglomerati: il lido, noto anche come Perla dell’Adriatico, e il paese alto. Quest’ultimo è posto a circa 170 metri sul livello del mare e vi si accede attraverso ripide vie dalle quali si gode un magnifico panorama sul mare.
Ebbene il paese alto, un centro bellissimo, aveva un problema enorme di viabilità che creava gravi disagi. Anche qui sono state indette assemblee con tutte le famiglie (ci abitano 120 persone e la piccola dimensione ha aiutato) che hanno portato la cittadinanza a decidere di chiudere il paese alto con una sbarra telecomandata. Ma la cosa interessante è stata che la stessa cittadinanza, per la prima volta, si è offerta di pagare parte delle spese dell’intervento.
Questo è un passaggio che ci ha fatto riflettere: se questa decisione fosse venuta dall’alto, con un’ordinanza, io non so immaginare il risultato in termini di conflitto sociale...
venerdì 28 dicembre 2007
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